DEDICATO A ENZO TORTORA
LEI È COLPEVOLE, SI FIDI
È del 1984 un mio film televisivo (‘mio’ nel senso che ne ero autore, regista e interprete) prodotto dalla Terza Rete Rai e che si rifaceva al caso Tortora, alludendovi costantemente. Un libello contro le storture della giustizia di allora, dal titolo, credo indicativo, “Lei è colpevole, si fidi”.
Girai quel film mosso dall’indignazione, dalla rabbia e dall’amicizia che mi legava a Enzo. Amicizia, che, si badi bene, non mi fece velo nel valutare i fatti, bastò, e avanzò, la clamorosa evidenza di uno scriteriato e perverso procedere e sragionare degli organi inquirenti, prima, e giudicanti, poi. Inspiegabile (o spiegabilissimo) procedere, che ebbe sintesi al processo, quando il Pubblico Ministero (Marmo ne era il cognome) affermò che l’imputato non aveva addotto prove della sua innocenza. Allibii. Quell’affermazione capovolgeva non solo lo spirito della legge, ma anche ogni elementare principio di diritto. Quali testimoni si possono citare che abbiano assistito a un reato mai commesso, che siano stati cioè, presenti, mentre l’accusato non lo commetteva? Che stravaganza logica era quella? E, infine, toccava forse all’imputato dimostrare la propria innocenza o non piuttosto all’accusa provarne la colpevolezza?
Ma prove l’accusa non ne aveva (e non poteva averne: Tortora era innocente). Alla base di tutto c’era soltanto il racconto, o meglio l’invenzione di un assassino cannibale (si era letteralmente mangiato il fegato di un uomo, dopo averlo ucciso). E, tuttavia, queste sono soltanto alcune fra le tante assurdità che rendevano lampante l’innocenza di Tortora. Chi ra adulto in quegli anni ricorderà certo altri incredibili particolari.
Conobbi Tortora a Milano. Mi aveva invitato, come ospite, a Portobello, trasmissione della quale era autore e conduttore. E, poi, ancora in altre. Ne nacque stima reciproca e buona amicizia. Il suo arrestò rinsaldò l’una e l’altra. Il tre di settembre del 1983, gli scrissi una lettera di solidarietà al carcere di Bergamo dove era recluso.
DA PINO CARUSO A ENZO TORTORA
Roma 3 settembre 1983
Carissimo Enzo Tortora,
ho cominciato a scriverle tante lettere, ma non ne ho portato a compimento nessuna. Ci riprovo adesso, anche se la preoccupazione di dire cose che, sia pure involontariamente, possano ferirla resta. Toccare una piaga causa sempre dolore. Penso che ogni lettera di amici, estimatori e familiari, insieme al conforto, le procuri qualche sofferenza. Questo mi ha impedito, sino ad ora, di farle pervenire un mio scritto, insieme alla speranza che tutto si risolvesse presto; speranza che non ho perduto, al punto di ritenere possibile che questa lettera giunga… tardi; o, quantomeno, che preceda di poco la migliore delle risoluzioni.
Le occasioni che ho avuto di conoscerla, mi sono bastate per capire un dato fondamentale della sua persona, un dato sul quale ho poggiato subito la mia stima: il coraggio civile. Il coraggio di mettere il proprio lavoro al servizio delle proprie idee e opinioni. Ma di questo mi sarei accorto anche se non ci fossimo mai incontrati; ché le sue idee e le sue opinioni le ha dette e scritte sempre, ovunque poteva dirle e scriverle. E si sa che a dichiararle, si corre il rischio di alienarsi la simpatia di chi non le condivide e di inimicarsi chi le teme.
So di molti professionisti che si servono della professione come di un riparo: “Io conosco solo il mio lavoro – dicono – per il resto mi faccio i fatti miei”. Affermazione vigliacca e anche bugiarda. In una società civile chi si fa i fatti propri è, nella migliore delle ipotesi, complice silenzioso e inconsapevole dei fatti poco puliti degli altri.
C’è l’amarezza (ed è dir poco) di costatare che a servire le proprie idee si rischia di restare indifesi.
Esiste ancora una parte sana al mondo e nel nostro Paese, all’interno della quale si possono commettere anche grandi errori; ma se è sana - come credo . avrà già avvertito l’esigenza di riconoscerli.
So che per me è più facile che per lei affermarlo e la prego di perdonarmi se l’affermazione la tocca dolorosamente; ma io devo dirlo, è una certezza che dobbiamo avere.
Non ho idea di quanto possa averla confortata, e ancora la conforti, l’apprendere che quei pochi sciacalli, puntualmente sbucati dalle tane, sono stati cacciati e zittiti dalla stima che la gente migliore ha per lei; io posso soltanto dirle (e voglio dirglielo) che quello che le capita mi colpisce profondamente come persona civile e, ancor di più, come amico - come fossi (spero mi permetterà questa licenza) un suo vecchio amico.
Pino Caruso
Mi rispose pochi giorni dopo:
DA ENZO TORTORA A PINO CARUSO
Carcere di Bergamo 14 settembre 1983
Carissimo Pino, sono Enzo Tortora. Lei sa quale stima io abbia di lei; la sua lettera, mi creda, ha rafforzato questo sentimento. Verissimo: vivendo nell’offesa spesso ci sono parole che, non volendolo, feriscono. Non è il suo caso. Grazie Caruso. Grazie per ciò che mi dice, e che conforta una battaglia assurda, grottesca, ma spaventosamente dura in un Paese, ne sono ahimè definitivamente certo, che non ha coscienza civile, ma solo animo di servo. Quando la legge (la legge! Caruso) è affidata a macellai umani che delirano, infangano, calunniano, e le toghe, e i carabinieri tengono loro bordone, è finita. L’Italia è mostruosamente cariata, e va a fondo, sta andando a fondo tra chiacchiere e vergogna. Io prego solo i miei Dei (non sono cattolico) di resistere in piedi, come un uomo deve, a questo Niagara di fango e di bugie. Ma è atroce, Caruso. Se un giorno ci vedremo, e se sarò in grado di uscirne vivo, passerò con lei, amico che s’è dimostrato sincero, una serata che ti garantisco istruttiva. Sono stato scuoiato vivo, linciato, crocifisso. E per nulla. Quanto v’è di atroce, in questa storia, dovrebbe colpire tutti - perché potrebbe colpire tutti. Ma lei crede interessi a qualcuno? È ripreso il campionato di calcio... Ricordami a tua moglie. A te una cara, forte stretta di mano.
Enzo Tortora
“L’Italia va a fondo” scriveva Tortora. E vedeva bene e chiaro. L’Italia andò a fondo; un fondo nel quale ancora siamo; ma, se allora s’infamò un innocente, sarebbe inaccettabile che, oggi, per riequilibrare un’ingiustizia, se ne commettessero altre, assolvendo dei malfattori. La legge continuerebbe a esserne distorta e tradita. pino caruso
"LEI È COLPEVOLE, SI FIDI”
Sul caso Tortora
Un documentario satirico scritto, diretto e interpretato da Pino Caruso (da un idea di Vittorio Sindoni)., che prevede un processo a Pino Caruso. Il quale allarga il discorso (e i processi) a tutti i colleghi Si immagina una Italia dove la comicità è reato e i comici ed eventuali complici (autori, registi, etc.) fuori legge. Il film si svolge come un’inchiesta giornalistica condotta da Giuseppe Marrazzo - inviato Rai, noto per le sue incursioni nel mondo della criminalità organizzata (mafia, ‘ndrangheta, camorra).
Monica Vitti, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman vengono arrestati (il loro arresto è raccontato utilizzando sequenze di film dove interpretano personaggi fermati dalla polizia). Gli altri (Franca Valeri, Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi, Renato Rascel, Carlo Dapporto, Carlo Campanini, Mario castellani, Mariangela Melato, Massimo Troisi, Beppe Grillo, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Carlo Verdone, Luciano De Crescenzo, Francesco Nuti, Pippo Franco, Giancarlo Giannini, Maurizio Nichetti, Lino Banfi, Diego Abatantuono, Gianfranco D'Angelo, Jerry Calà, Franchi e Ingrassia, Ric e Gian, Lino Toffolo, Lando Buzzanca e Roberto Benigni) si nascondono in Italia o riparano all’estero. Marrazzo riesce a scovarne alcuni e li intervista. Comincia con Pino Caruso e prosegue con Oreste Lionello, Enrico Montesano, Renzo Arbore, Gigi Proietti, Luciano Salce e Nanni Loyy. Caruso vive in una baracca sul mare, probabilmente in Sud America, Oreste Lionello e Nanni Loy vengono rintracciato a Roma, rifugiati, il primo in uno stabilimento di doppiaggio, il secondo in una sala di montaggio, Salce in una barca, sul punto di espatriare, Arbore in Messico, con poncho e sombrero, munito di chitarra, mentre suona e canta per i clienti di un ristorante, Montesano in Francia, camuffato, con grandi baffi scuri, occhiali e naso finto, Proietti, mascherato da monaco domenicano, in un convento (il cui padre priore ha le sembianze del comico catanese Tuccio Musumeci); nello stesso luogo hanno trovato asilo quasi la totalità degli autori italiani di varietà e di rivista. (Garinei e Giovannini, Castellacci e Pingitore, Age e Scarpelli, Terzoli e Vaime, Castellano e Pipolo, Amurri e Verde, Amendola e Corbucci, Di Pisa e Guardì, Antonello Falqui, eccetera).
TORTORA RADICALE
DA ENZO TORTORA A PINO CARUSO
10 aprile 1986
Partito Radicale – il presidente
Pino carissimo, permettimi, in nome di tutti, di ringraziarti per l’ulteriore faticaccia alla quale ti sei sottoposto. Sei stato, a Roma (e ho avuto finalmente modo di sentirti) di una bravura, di una generosità, di un’estrosità impagabile. Ora mi dirai che dirti “impagabile‟ è una scusa tutta radicale, per evitare di pagarti… Non è solo questo (siamo il partito che hai mirabilmente descritto nella tua filastrocca Siciliana, altro piccolo capolavoro) ma è proprio un dono grande e immeritato l’aver trovato un artista come te. Al quale non si può dire che “grazie Pino”, e restargli debitori per sempre.
Un abbraccio sincero, tuo Enzo Tortora
LA FILASTROCCA PER I RADICALI
Fimmini schietti e maritati,
picciotti ca zita e picciotti lassati,
cristiani onesti e sfortunati,
peri ‘ncritati
disoccupati e occupati,
vastasi, macari fitusi ma non sdisonorati.
patri ‘i famigghia assistimati,
figghi ‘mpustati,
suoggiri, ienniri e cugnati,
siciliani di tutto il mondo, ascoltati, ascoltati!
Cercati e guardati
sutta ‘e maruna, pure ‘nte finistruna,
magari pure 'nte barcuna,
dintra ‘e purtuna,
rarrieri e balatuna,
grapiti u cantaranu,
taliati sutta ‘u divanu,
poi pigghiati un carritteddu a mano,
e ci caricati chiddu ca truvati: scarpi arripizzati,
cavusi sfunnati, quatri scurciati, vistita malicumminati,
cappeddi sfardati, pianoforti scurdati,
ruoggi scassati,
però antichi e pregiati,
firrietti, culunnietti, materassa viecchi
ferri pi fari i quasietti,
pirunietti, carti pi ghiucari a trisietti,
trispita e lietti
friscalietti, fazzulietti, sicarietti,
cincianeddi, cutieddi pi munnari favi e pisieddi,
parieddi, cucchiaini, tegamini, spremilimoni e mandarini,
ventaglini, centrini, cuccchiaini, vestaglini
e manufatti affini come spolverini, golfini, manichini,
centurini, tonachi ‘i parrini,
insomma oggetti fini, roba speciale,
saliere pi mittiricci ‘u sali,
e, si l’aviti, qualche orinali, antico però, dell’epoca imperiale,
tende, tendine, qualche tendale,
macchine da cucire col pedale,
casicuna col doppio fondale,
roba buona però, non roba ‘i ittari,
antica e di valore particolare,
e tutto quello il quale
può essere portato al Partito Radicale,
che ci avi un bisogno ancestrale
di aiuto economico e materiale;
e vuole fare
un’asta particolare,
onde potere procurare sostegno morale e venale,
per creare nel territorio nazionale,
una giustizia più uguale per il cittadino normale
che avesse la sfortuna di doverci avere a che fare.
Insomma, per dirla papale, papale
ci serve una mano per migliorare e cambiare
le cose che vanno male,
perché senza denari
le battaglie non si possono fare,
i manifesti non si ponnu appizzari,
‘a carta non si può accattari,
senza microfoni non si può parlari.
Insomma, senza denari non si può nemmeno protestari,
perché, come dice mio zio Peppino,
che è uno che ha il cervello fino,
senza vino non canta missa nemmenu un parrino,
e senza uova non nasce nemmenu un puddicinu.
LETTERA A GIACOMO BATTIATO
Il problema del voce volto
Roma 7 ottobre 1991
Facciamo così: io mi assumo le mie responsabilità, Lei le sue. Cominciamo con le mie: sì, ho sbagliato ad inserire il “Cellini” tra i film che “d’italiano hanno solo la cialtronaggine”. E di questo le chiedo sinceramente scusa. Ed ho sbagliato per un motivo che è più grave dell’errore che ha prodotto: il suo film io non l’ho visto. Ma quello che ha fatto scattare, diciamo così, il pregiudizio, è che questo suo film prolunga la vecchia abitudine del nostro cinema di usare attori stranieri per i grandi personaggi della storia d’Italia.
Lei dice: “Cellini” è una coproduzione italo-franco-tedesca con una richiesta francese: l’attore protagonista”. Le par poco? È proprio questo il punto: se i francesi volevano il protagonista, perché fare Cellini? Potevate fare, più opportunamente, Lavoisier, Voltaire, Bazac… Non le sembra irridente per il cinema e per gli attori italiani, una simile richiesta? E possibile che tante figure illustri e, comunque, importanti, della nostra storia (C. Colombo, M. Polo, G. Verdi, Leonardo, Michelangelo, Rossini, Mussolini, ecc.) siano sempre state, sistematicamente, pervicacemente, affidate dal cinema italiano a interpreti non italiani? Voglio ancora vederli i francesi (per non parlare degli inglesi e degli americani) affidare, in una coproduzione, un loro grande personaggio, per esempio Moliere, ad un attore italiano.
Lei, poi, aggiunge: “A fronte dei due miliardi tedeschi, ci sono due attori d’indiscutibile livello internazionale”. Non è questo il problema. Non abbiamo mai discusso la validità dei nostri colleghi stranieri. Noi ne chiediamo un uso più corretto ed efficace. Noi chiediamo che ogni attore, a qualunque nazionalità esso appartenga, sia utilizzato pienamente, integralmente: vogliamo sentirli parlare i nostri colleghi europei (e anche americani) nella loro lingua, con la loro voce e con il loro accento straniero (nel caso che parlino italiano, per ragioni di sceneggiatura). Lei sa che agli spettatori italiani questo piacere è stato sempre negato: Noiret, Depardieu, De Niro, Hoffman, la Meryl Streep, Al Pacino (faccio dei nomi a caso), nessuno di noi sa che voce abbiano e come recitino. E va bene: il doppiaggio dei film stranieri è vizio ormai inestirpabile (autarchia gabellata per apertura). Teniamocelo. Ma almeno nei film di produzione italiana (o per la parte italiana, in quelli di coproduzione) restituiamo a questi nostri colleghi la loro voce). Usiamoli pure nelle misure che vogliamo, ma usiamoli al meglio: non facciamogli interpretare ruoli che non appartengono alla loro cultura. Rispettiamo loro e noi stessi. Un attore è il prodotto e, insieme, il testimone dell’ambiente che lo esprime. È la faccia, la voce, la storia di un popolo. Chiamarlo a testimoniare di ciò che non conosce, se non per sentito dire, è ottenere falsa testimonianza. Un attore francese (o inglese, o di altro paese), costretto (sia pure piacevolmente costretto per via di un buon compenso), a dar vita ad un personaggio italiano, è un attore castrato, prima nella gestualità (non potrà servirsi della propria – francese – per palese contrasto con quella italiana; non potrà nemmeno tentare di copiare la italiana, se vorrà evitarne la parodia; non gli resterà che rifugiarsi o in una gestualità vaga, o in nessuna - tenendo, a ogni buon conto, le mani in tasca - a scapito inevitabile della espressività e incisività del personaggio), poi, mortificato nella recitazione: bisognerà doppiarlo: un parlare italiano con accento francese per un personaggio italiano, non gioverebbe alla verosimiglianza del ruolo.
Non pretendiamo che si chieda a un attore la nazionalità prima di affidargli un personaggio; chiediamo che gli si offra la libertà di fare quello che può fare, e quello che sa fare, al meglio, ma con tutto se stesso; vale a dire con la voce e con il gesto; non un attore, dunque, dimezzato, ma intero e interamente libero di dar forma a tutta la sua capacità espressiva.
Che, poi, il Suo “Cellini” sia un buon film, non contraddice il discorso. Per un film ‘buono’, nonostante metodi che noi consideriamo mortali, non solo per la dignità ma anche per la sopravvivenza del cinema italiano, esistono tanti film cattivi, e cattivi a causa dello stesso procedere. Il suo film non sarebbe stato meno buono, se avesse avuto un interprete italiano. Anzi! Senza nulla togliere a Wadeck Stanczac, avrebbe avuto un elemento di credibilità in più per un pubblico europeo: Cellini italiano, raccontato da un regista italiano e da un attore italiano - chi meglio di loro? Due francesi? O, dei due, un francese?
Per inciso, il pubblico americano ha ‘rifiutato’, “Il Gattopardo” di Visconti, ritenendo l’americano Burt Lancaster, non credibile nei panni di un siciliano.
Per inciso, gli americani, non doppiano i film stranieri. E se in un loro film, c’è un personaggio tedesco, a interpretarlo chiamano un attore tedesco, che parlerà americano con accento tedesco.
Per inciso, gli attori italiani, piuttosto che essere costretti, contro se stessi, a doppiare nel buio delle sale di doppiaggio, attori stranieri che interpretano personaggi italiani, potrebbero essi stessi, italiani, interpretare alla luce del sole personaggi italiani. E non è un problema di lavoro, (anche se lo è), ma di opportunità espressiva.
Perché credo a John Wayne quando fa il cow boy? Perché è americano! Perché, soltanto ancheggiando e muovendo le mani, racconta l’America e gli americani. Se, imitando noi italiani, gli americani chiedessero a Marcello Mastroianni, pur splendido attore, di calarsi nei panni di un pistolero, non pensa che il ridicolo sarebbe, almeno sfiorato? È il rischio che corriamo, e, spesso, è il risultato che raggiungiamo.
In conclusione, mi pare che sulle ragioni di fondo, Lei sia d’accordo con noi del Sindacato. Ne prendiamo felicemente atto, quasi benedicendo ‘l’incidente’ che ha provocato la Sua reazione; della quale La ringraziamo: abituati all’indifferenza, ci sembra già una forma di rispetto.
Pino Caruso, Segretario del Sindacato Attori Italiani
LETTERA A GIANCARLO LEHNER
Direttore del quotidiano socialista l’Avanti
Roma 12 maggio 1993
Sino a qualche mese fa, scrivevo sull’Avanti. Una collaborazione durata un paio d’anni. Vi scrivevo confortato dalla cordialità e, in qualche caso, dall’amicizia della redazione; ma vi scrivevo con disagio. Il disagio di non potere esprimere più apertamente il mio dissenso dal comportamento del Partito. E dico ‘più apertamente’, poiché in qualche modo lo esprimevo. Ne fanno fede i ‘Taccuini’ pubblicati. Smisi di collaborare, in seguito alle reazioni, a dir poco scomposte, di alcuni ‘compagni’ nei confronti della magistratura, che indagava su presunte violazioni al finanziamento pubblico dei partiti. Non era accettabile, per un democratico e per un socialista, difendersi screditando i magistrati. Se la magistratura era inaffidabile e, addirittura, ‘complottava contro le istituzioni’, come mai i socialisti con responsabilità di governo, non se ne erano occupati e preoccupati per tempo? E perché mai i cittadini avrebbero dovuto continuare a esporsi al giudizio della legge, se i suoi rappresentanti in parlamento se ne sottraevano? Questo avrei voluto scrivere sull’Avanti. Non era possibile. Mi licenziai; ma non ero un traditore, ero un tradito.
L’Avanti, sin dalla sua fondazione, è stato il giornale delle grandi battaglie sociali e civili. Era il giornale di mio zio che, sotto il fascismo, pagò con una vita di stenti la sua fede socialista. Un giornale che, senza timore d’enfasi, può definirsi glorioso. La mia solidarietà, come quella di tutti i democratici, in questo momento critico, è doverosa. Purché il Giornale non smentisca il suo nome. Un ritorno alle origini e alla sua storia è l’unica via per costruire il futuro e riscattare il presente e il recente passato.
Pino Caruso
LETTERA DI GUGLIELMO EPIFANI E SERGIO COFFERATI
A PINO CARUSO
CGIL
Confederazione Generale del lavoro
Corso Italia 25 – 00198 Roma
Roma 5 luglio 1994
Caro Caruso ,
volevamo dirti che abbiamo avuto modo di apprezzare il contributo importante e generoso da Te dato nel corso di questi anni al Sindacato Attori Italiani e, tramite questo, a FILIS e CGIL.
Te ne siamo riconoscenti e ci auguriamo, nel rispetto delle decisioni che spettano al Comitato Direttivo del SAI, che sia ancora possibile vederTi – con gli altri compagni che Ti preghiamo di salutare – alla guida del Sindacato nelle battaglie per il pieno riconoscimento della professionalità e dei diritti degli attori.
Sergio Cofferati - Guglielmo Epifani
DA DANTE ALIGHIERI
A LORRAINE DE SELLE
Produttrice della serie tv "Carabinieri" 2003
Pino Caruso, nel donare a Lorraine De Selle una copia del Purgatorio e una del Paradiso affinché con l’Inferno, già in suo possesso, avesse tutta la Commedia, finge di essere Dante, e accompagna il dono con questi versi:
Certo non fu per lo mancare mio
che solo adesso aggiungo gli altri canti
a completare l’opera e ‘l disio
ch’ella, signora, l’abbia tutti quanti.
Ed ecco ch’a buon fine or giunge ‘l terzo
ed ‘l secondo di que’ ancor mancanti,
che da leggere sono in modo inverzo:
come li scrissi e li pensai in quegli anni
nel mezzo del cammin di quello scherzo
che fu la vita mia colma d’affanni.
Ma or che non son più, e sono etterno,
lontano dai dolori e dagli inganni,
dove non scorre più n’estate o ‘nverno,
m’è dolce immaginar che mia stagione
non indarno mi vissi, e che lo scherno
cui sottoposto fui per la cagione
d’esser sì pien d’amore e d’onestate,
siasi mutata in equa ammirazione.
Per cui bella signora, or m’accettate
questo presente mio, di cuore offerto,
perché di lui, io sper, vi deliziate.
Con i saluti miei, li più sinceri.
Firmato: Dante o ‘nvero l’Alighieri.
LETTERA PER IL CAV. TORRISI
Produttore siciliano di caffè. In occasione del centenario della ditta.
Pippo Torrisi è signore nei modi e nei sentimenti. Di una eleganza estetica e morale più congenita che sovrapposta. Signore del lavoro. Ed è per ciò che il presidente della Repubblica lo ha nominato cavaliere, come dire nobile; di una nobiltà (quella del lavoro, appunto) più nobile della nobiltà semplicemente araldica. Quando lo incontrai la prima volta, la sua figura mi richiamò alla mente, o meglio - come dicono gli inglesi - agli occhi della mente - un altro grande siciliano, Don Fabrizio Corbera Principe di Salina, il Gattopardo, uomo di grande umanità e civiltà, cui Pippo Torrisi si apparenta perfettamente e nell’anima e nel corpo. Parentela non d’immediata e facile identificazione per chiunque, ché, essendo noi siciliani vittima di un luogo comune che ci vuole mafiosi, piccoli, scuri di capelli e di occhi, chiunque non vi corrisponda non viene accreditato (o addebitato, fate voi) all’essere siciliano.
Ho conosciuto Pippo Torrisi tanti anni fa (non ricordo quanti). Ci siamo incontrati in un ristorante di Roma. Io provenivo dal mondo dello spettacolo, lui da quello dell’imprenditoria. Io dietro di me avevo solo il mio passato, lui anche quello di una tradizione di famiglia. Parlammo a lungo, di tutto, come capita quando si parla molto: di storia, di politica, di religione. E, solo dopo avere analizzato (e risolto - a modo nostro, si capisce) tutti i mali del mondo, parlammo di caffè, del caffè in generale e del caffè Torrisi in particolare. Buono, non perché lo dice la pubblicità (o perché lo dico io) ma perché lo dice lo stesso caffè - un caffè che parla. Diventammo amici, lui io e il caffè. Lo siamo ancora, nonostante la poca frequentazione (io abito a Roma, Pippo a Catania); ma il suo caffè mi viene spesso a trovare (è un caffè che non parla soltanto, ma anche cammina) e attraverso lui continuiamo la conversazione e l’amicizia.
Pino Caruso -ottobre2014